Fellini

In un libro di e su Fellini (fare un film – Einaudi) ritorna una sua riflessione, ancora meglio precisata, sulla differenza tra il film pensato e quello fatto.
Questa riflessione mi consente di costruire un ponte con la prassi dell’architettura.
Quando Fellini parla del film pensato, allude addirittura all’indistinta visione onirica, in cui un volto non è un reale volto, per fare un esempio, ma la sensazione di un volto.
Nella complessa traduzione di questo aspetto nella realtà, avviene una lotta sanguinosa con i volti veri, con la loro epidermide, i pori, i nei, ecc… per riuscire a restituire quell’impressione, e la necessità, al di là delle traversie durante le quali si cerca comunque di imporre il proprio essere “direttore” delle operazioni pratiche che sottendono al processo realizzativo. Di confrontarsi poi con la realtà, accettandola.

È interessante che anche nell’architettura possa funzionare così. Credo lo sia stato, per fare un esempio che mi riguarda, con l’ingresso della casa S+V, in cui una cosa immaginata in un modo vago, ha dovuto poi prendere forma e sostanza. Ricordo il piccolo trauma nella differenza tra i colori del noce massello dei bastoni verticali e quello impiallacciato del cassone soprastante.
Ma questo progetto da un lato, come detto, va accettato, lottando certo il più possibile, ma dall’altro può avvenire solo nel rapporto tra un’idea e il suo confronto con la realtà.
Se no è scrittura (e diventa tuttalpiù letteratura se la scrittura è di qualità)
E la realizzazione comprende anche quegli eventi che idealmente non puoi prevedere (la litigata con il proprietario, la norma che ti impedisce un’azione, tu che vuoi portare un estraneo in cantiere, un materiale sbagliato che non si può restituire…)